I treni corrono veloci, col loro carico di umanità pesante, logora, disintegrata e sudicia.
Il percorso è sempre lo stesso, sempre gli stessi i controllori coi loro occhi giallognoli, le unghie lunghe dei loro mignoli, i denti in avanzato stato di muffa e il loro accento che sa tanto di limoncello e di monnezza anche se ci troviamo a pochi chilometri da Laveno Mombasa.
Anche i passaggi a livello (1), ormai ridotti a poche decine in tutto il regno di Zègadon, sembrano solo delle vecchie sentinelle arrugginite, che a volte fanno fatica pure ad abbassare le loro sbarre bianche e rosse, soprattutto nei paesi della bassa salentina ("ove il sol ti cuoce l'anima" cantava Luigi Bernabei).
E cosa dire delle stazioni? Le belle e gloriose stazioni, un tempo orgoglio del pelatone e dei suoi gerarchi dotati di orologi anali, ora solo tristi ammassi di mattoni, odore di chiuso, odore di piscio e scritte sui muri... oggi solo tristi testimoni del tempo che passa inesorabile, il tempo che divide il momento della nostra nascita da quello della nostra dipartita dal globo terracqueo e terronale.
Ormai i treni sono creature sempre più rare e tecnologiche, prive di conducenti, guidate dai computer e dalle sinapsi hegeliane che albergano nel cervello di qualche metafisico capitolino.
Tutto è spersonalizzato, tutto è automatizzato ("automaticane!", aveva profetizzato il buon Golgani qualche anno fa); e a noi, spettatori dell'arco celeste, non resta che assistere passivi e remissivi a questo incedere di emozioni cristallizzate e omologate e omofobizzate.
Incapaci di esprimere ciò che ci agita dentro, incapaci di dare voce alle nostre pulsioni animalesche, incapaci di sorridere quando il cielo e il mare si salutano: ormai siamo così.
"Vivemus atque amemus", scriveva Catullo Patalli.
Proviamo a dargli retta, almeno 'stavolta.
Buon delirio a tutti,
SL
(1) si proceda all'ascolto di "Passaggio A Livello", Enzo Jannacci, 1962
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